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Randonnèe dalle Gravine al Gargano

Mi dicevano che le vere Randonnée cominciano dai 400 km in poi. Ed è stato proprio così.

Nei 300 si ha solo un assaggio dell'ultra-distanza, dell'adattamento del corpo alla posizione prolungata in sella e soprattutto non si ha il cosiddetto “battesimo della notte”. 

L'avventura inizia come sempre da lontano, dall'avvicinamento fisico mentale per raggiungere il luogo di partenza: Ginosa. Prendo il regionale da Napoli diretto a Taranto, ha solo tre carrozze e sembra un trenino di un parco giochi al cospetto del vicino di binario, un enorme freccia rossa. Mi piace viaggiare sui treni perché prima di tutto non devo concentrarmi sulla guida. Posso alzarmi, sgranchirmi le gambe ed apprezzare il paesaggio cambiare lentamente dal finestrino. Alla terra bruna e vulcanica della Campania Felix si avvicenda l’ocra dei campi grano ed il porpora degli uliveti. E poi i regionali son gli ultimi baluardi rimasti in una compagine di mezzi di trasporto anti-bici. Contemplate in stazione le romantiche tabelle orarie di carta gialla, vi accorgerete che solo i viaggi con la "R" sono associati ad un bel pittogramma azzurro a due ruote. 

Scende la sera e tira un bel venticello fresco. Quando mi rendo conto che siamo giunti sullo Ionio ed ormai prossimi a Metaponto mi sorge un dubbio: non è che per caso la stazione di Ginosa, come chiaramente viene annunciata dall’altoparlante, in realtà è posta a Ginosa Marina? Piccoli particolari che minano la mia pazienza da un lato ed affascinano la sete di imprevisti dall'alto. Sarà un segno premonitore che vuole che io assaggi subito il clima notturno? Sono passate le 20 e non mi resta altro che mandar giù questa ventina di chilometri che mi separano da Ginosa. Che saranno mai, un semplice riscaldamento pre-randonnée. Ma ignoro che mi trovo a livello del mare mentre il paese si trova invece a quota 300. La strada infatti col passare dei minuti diventa prima un falso piano e poi si impenna. Il pesante zaino sulle spalle e lo sforzo della salita mi fa sudare tanto ed inganna la percezione corporea della temperatura. Ciò mi farà commettere un grave errore la mattina seguente.    

Giungo in paese e raggiungo un gruppo di scalmanati che si sta rimpinguendo di pasta, pizza, birra e vino. Taglieri di focaccia al pomodoro, con le zucchine, con le cipolle, volano sui tavoli come se non ci fosse più un domani ed io ne approfitto per fare un ulteriore carico di carboidrati! Qui conosco per la prima volta Carlo Sulas e gli altri randagi di Puglia, Alessandro, Giovanni. Dopo tanto tempo finalmente non mi sento solo in questa mia pazza voglia di pedalare, accomunato con gli altri dal desiderio di scoprire le forme della penisola italica con le sue coste, le montagne antiche degli Appennini, le vette mitiche delle Alpi. 

Ci sistemano nella piscina comunale, dove gonfiamo i materassini e ci insacchiamo nei sacchi a pelo. Sembriamo un gruppo di disperati senza tetto, o forse degli escursionisti che han smarrito il sentiero.

Non so se è per il duro giaciglio, la tensione pre-partenza, il concerto ronfante dei compagni di stanza, ma quasi non chiudo occhio. Alle due passate decido di spostarmi in una zona meno rumorosa e mi accuccio fra le panche e gli armadietti di uno spogliatoio. Durerà poco perché alle 5 bisognerà già alzarsi per vestirsi e partire. Vagando a piedi scalzi in uno stato fra la veglia ed il sonno, ripeto automaticamente i gesti che precedono l’uscita, un rito accompagnato dal suono delle zip che si chiudono, dallo scatto della fibbia delle scarpe, dallo scoppiettio dell’acqua nella borraccia piena di sali. 

Al timbro della partenza siamo in pochi. Osservo materiali e leghe di ogni tipo: alluminio, titanio, acciaio... e poco carbonio. E poi una fantasia multicolore che si mostra in portapacchi posteriori, borsette laterali, catarifrangenti da moto, marsupi al manubrio, fari a dinamo e zaini in spalla... c’è di tutto ed ognuno interpreta la sua filosofia di randonneur. C’è poco di standardizzato in questa “disciplina” dove non conta tanto la leggerezza ma l’affidabilità e la comodità del mezzo.

Il percorso parte già in salita e la strada lambisce distese di ulivi senza sosta. Attraversiamo un'aria pesante, densa ed infatti dopo un po’ inizia a piovere. Dalla "terra mater" (Matera) spuntano speroni di roccia calcarea, pietre addolcite dalla presenza dall'uomo preistorico, sedotto dal mistero di questi spazi vuoti.

Scolliniamo che ormai sta diluviando. In discesa supero Giovanni, un mio conterraneo, al doppio della velocità. Lo vedo in difficoltà e gli faccio cenno di seguirmi, ma evidentemente non se la sente di forzare con tutta quest’acqua che si insinua fra le ruote. I freni a disco fanno il loro sporco lavoro sul bagnato e la bici risulta guidabile e stabile quasi quanto sull’asciutto. Decido di non perdere il gruppetto dei pugliesi, Paolo e Pippo che stanno spingendo ad un buon ritmo ed essendo del posto conosceranno sicuramente bene le insidie del percorso. Circumnavighiamo l'abitato di Gravina di Puglia, dove l'acqua sembra aver scavato un canyon al di sotto delle case. Dall’esterno la città sembra una fortezza arroccata su un asteroide, atterrato sul pianeta fendendo la terra tutt'intorno. 

Il calcare pian piano fa posto ai dolci terrazzi delle Murge, distese di pascoli si moltiplicano in un verde smeraldo interrotto solo dai cipressi che conducono alle masserie. Il primo controllo è posto proprio sul Faro di Minervino. Qui le mucche si godono beate il panorama, accovacciate sorseggiano un aperitivo a base di erbe aromatiche.

Il cielo inizia ad aprirsi proprio nel momento in cui scendiamo di quota e comincia la sterminata pianura foggiana. La terra si fa rossa, arsa dal calore che fuoriesce dal sottosuolo, spaccando l’asfalto. Attraversiamo filari di vigneti in un’aria acre, la gola si secca ed incomincio a far fatica a stare a ruota. Sono logorato dalla tenuta di una media oraria troppo elevata per il mio allenamento: 27 km/h con quasi 2000 mt di dislivello!

Accecato dai riflessi del catrame che si scioglie col primo caldo primaverile, scorgo un miraggio. Un puffo blu su una Pinarello blu si avvicina e ci fa cenno di tornare indietro. La strada per Zapponeta è interrotta da 5 chilometri di lavori in corso e per evitarli ci tocca fare una deviazione di 15 chilometri! Stanchi ed increduli ascoltiamo il consiglio del puffo Ruggiero. Imbocchiamo una stradina malmessa circondata da pini marittimi e salici piangenti. Qui provo a rinfrescarmi un po' all'ombra degli alberi ma duererà poco. Ritorniamo sulla traccia originale del Roadbook, costretti nonostante la deviazione ad attraversare un piccolo tratto di strada sterrata. Il retrotreno sobbalza sulla ghiaia da rally e miracolosamente riusciamo a non forare. Incomincio a boccheggiare. La scorta di acqua è finita da un pezzo e trovare una fontana nel bel mezzo dell’infinita campagna pugliese diventa un’impresa. Chilometri e chilometri di pianura dove solo i finocchiastri si insinuano ai lati delle strade, così alti da apparire attori in un teatro all'aperto, un pubblico di tifosi vegetali. 

Pippo mi rassicura dell’esistenza di un bar ai piedi della salita di San Giovanni Rotondo. La sosta è obbligata. Ci rinfreschiamo con un bel gelato e con acqua ghiacciata. Le spalle, le braccia e le gambe son diventate violacee; getto il capo sotto il rubinetto e la mia testa fuma incandescente. Riprendiamo un po’ di energie prima della scalata al santuario.

I tornanti si fanno sempre più duri e quando si passa ai lati della carreggiata in cerca di ombra, le pareti ti restituiscono un'ondata da altoforno siderurgico. Pippo ha davvero un altro passo e prima di allontanarsi mi regala un carbo-gel. Provo ad ingerirlo, ma senz'acqua la dolcezza e la densità mi solidificano lo stomaco. Sto quasi per vomitare ma riesco a trattenermi al pensiero del ristoro dei 200 km ormai vicino. Il paese non sembra arrivare mai, alzo gli occhi e non vedo case all’orizzonte. La sua collocazione geografica all'interno dell’altopiano mi sta ingannando e quando inaspettatamente si fa avanti il cartello “Benvenuti nella città di San Pio” scoppio da solo in una risata isterica. Sull’ultimo strappo vedo un uomo in lontananza sbracciarsi per indicarmi il luogo della sosta. Mi spetta un meritato piatto di orecchiette al sugo, pane al prosciutto, banane, crostate alla marmellata e chi più ne ha più ne metta. Cerco di mangiare il più possibile nonostante il mio intestino sembri chiuso e si stia ribellando dopo aver ingerito quel maledetto dolcificante chimico.

Siamo fermi da più di mezz’ora e non vediamo ancora arrivare Paolo. Si è staccato sulla salita ma il ritardo ci fa sospettare che si sia perso. Lo scorgiamo dopo un po' maledire in dialetto ostunese per aver allungato di altri 3km la salita! Attendiamo anche il suo rifocillamento ed iniziamo la discesa verso Manfredonia. Qui incontro Giovanni che solo ora sta raggiungendo il punto di controllo. Mi dice che non conosce la strada e mi prega di aspettarlo per fare gli altri 200 km insieme. Per la prima volta devo prendere una decisione “tattica” in corsa: abbandonare il gruppetto dei primi per aspettare un amico in difficoltà? Più tardi capirò che non solo il bagnato e l’orientamento con il roadbook  son il suo tallone di Achille, ma in generale tutte le discese. Ma nelle salite e nelle pianure andrà forte come un matto. Questo destabilizzerà ancora di più le mie fioche energie psicologiche, che già pregustavano un arrivo prima di mezzanotte. Mai fare programmi in una lunga randonnée, perché puntualmente salteranno uno dopo l'altro; gli imprevisti saranno sempre dietro l'angolo, pronti a spiringuacchiarti per dispetto i più rosei disegni. Ma ora, a freddo, posso dire di sentirmi soddisfatto per aver aiutato un amico in difficoltà. Son stato un perfetto Virgilio-navigatore nelle strade di Puglia ed i miei 80 lux son serviti tanto nell'oscurità della campagna.

Ruggiero, giunto anche lui in cima al ristoro, ci suggerisce di seguire le indicazioni per il Parco del Gargano e di non riscendere dallo stesso percorso. Attraversiamo altri 20 km di sali scendi nella macchia mediterranea, poi deviamo sulla destra per Manfredonia. Inizia una discesa spettacolare. La vista del mare blu mi distrae e spesso son costretto a tirare i freni a tutta in curva. Mi sento ancora abbastanza bene ma appena inizia la pianura sale un vento contrario infame. A fatica riesco a superare i 25 km/h. Le mie gambe fluttuano flaccide senza energia, non ho più carburante da spendere. Come uno zombie trascino le mie ruote lungo le strade di Margherita di Savoia.

 

Il cervello è andato in pausa, non riesco più a ragionare. Il morale è basso e non penso di farcela a proseguire. Giovanni mi consiglia di fare una sosta per alimentarmi con un po’ di proteine, in modo da risanare un po’ di muscoli. I gesti consueti di portare il cibo alla bocca mi ridonano lucidità. Mi ritorna in mente la scelta azzardata di non aver portato un ricambio per la sera ed a Barletta cerchiamo disperati un magazzino ancora aperto. Sono le 21 e riusciamo a trovare solo un cinese dove rimedio un bel paio di calze da donna ed una maglietta a collo alto. La ragazza alla cassa mi apostrofa con una fatidica frase che ricorderò per sempre: << SEI MAGLA, STALE BENE TU CON LA S>>. Con lo spirito rinfrancato dal tragi-comico episodio ci imbottigliamo nel traffico del sabato sera, diretti al controllo del km 270 posto di fronte la statua di Eraclio. Comitive di giovani passeggiano indossando l’ultimo pantalone alla moda, famiglie con i carrozzini mangiano tranquilli un gelato, dalle auto pompa una musica techno. È l’apoteosi del week end che brulica in città, ostentando un benessere effimero, dalla vita breve. Il barista ci appone il timbro sulla carta gialla, ci osserva incredulo e dalla sua espressione trapela un ghigno di disgusto. Effettivamente sembriamo delle prostitute di basso rango conciati così, soprattutto io che indosso queste calze scure da cui traspare una fitta peluria!

Salutiamo lo spettacolo di luci, il trambusto urbano per immergerci di nuovo nel silenzio delle campagne. Una lunga ascesa sull’altipiano delle Murge ci attende. Nel cuore della notte si percepisce un nuovo mondo che respira, gli animali bisbigliano nel prato alto e l’odore umido degli aghi di pino e dei campi arati si fa più intenso. La strada è illuminata dai nostri fari a led ma bisogna avere istinto ed immaginazione per prevedere le sue forme e prendere la giusta direzione. Tutto sembra amplificarsi nell’oscurità, compresa la paura di non farcela.

 

Il Castello di Federico II illuminato ci guida nella notte come un faro in un oceano in tempesta, diventa sempre più grande e brillante man mano che la vetta si avvicina. La temperatura in salita è piacevole, la pendenza non è elevata tanto che riusciamo a chiacchierare, a raccontarci gli episodi più assurdi per combattera la stanchezza ed il sonno. Sarà l’empatia che si crea durante il viaggio ma ditemi voi in quale sport si riesce a coniugare la fatica fisica dello sforzo con un’apertura interiore dell’anima. Chiudendo gli occhi i pensieri e le paure più recondite vengono a galla, pronte senza alcuna remora per essere confidate ad una persona conosciuta poche ore fa.  

 

 

Il fruscio fra le sterpaglie ed il latrare dei cani ogni tanto ci spaventa. Non so se siano randagi oppure son stati messi lì a fare guardia alle cave. Fatto sta che qualcuno più spavaldo ci insegue. Siam costretti in continuazione ad accelerare e scattare per seminarli.  

Arrivati in cima all’altopiano ci restano da percorrere altri 80 km fra discesa e pianura. Zuppo di sudore, la maglia comperata dal cinese non serve ad un granché. È stato un grave errore, da principianti, quello di non portarmi né un ricambio, né i gambali e soprattutto la giacca antivento. Che incosciente e per che cosa poi, risparmiare qualche grammo su una bici che già da sola pesa 10 kg. La sensazione di freddo mi fa frenare in discesa in continuazione, appena supero i 15 km/h mi invade una sensazione di gelo al petto. 

Ad Altamura ci fermiamo per riscaldarci un po’ con un tè caldo, come dei rifugiati su una baita di montagna. Sono ormai le 3 e manca poco alla meta quando una voragine si apre sotto le ruote, riesco a scansarla con l’anteriore ma il posteriore ci va dritto dentro. PFFFSSFSFSFS… ho bucato! Come un flash mi appare nell’oscurità l’ombra della Sventura, si sta prendendo chiaramente gioco di me. Ma non demordo, mi alzo dalla sella per non caricare il cerchione e mi sparo l’ultima decina di chilometri con la gomma a terra. Un'ultima rampa ci separa dal centro storico di Ginosa, ritrovo le ultime energie per superare il dislivello ed incredulo mi ritrovo come un lungo sogno al punto di partenza.

Mi vengono ora in mente le parole di Bryan Eno citate da Carlo Sulas qualche giorno fa. Facevano più o meno così: il ciclista è un essere che suda inutilmente per ritornare sempre allo stesso luogo.

 

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